mercoledì 22 febbraio 2017

Caro diario 3

Caro diario,

oggi, avevo proprio voglia di scriverti, sai? Tutti hanno bisogno di qualcuno a cui raccontare la verità senza essere giudicati, senza avere paura di quanto crudele quel dannato giudizio possa essere; raccontare solo così, lentamente, senza neanche aspettarsi una risposta. Sì, perché quasi sempre la risposta me la sussurra il mio buonsenso o, peggio, la mia natura, solo che io non ho il coraggio di ascoltarla, finché non l’ho detta tutta, la verità, che continuo a negare persino a me stesso, perché troppo brutta o troppo evidente. 
Sì sì, lo so, tutti dicono che meglio dirsela, quella verità, che tanto prima o poi esce e ti fa soffrire ancora di più. 
Cazzate. 
Avrei preferito non dirmele certe verità; avrei preferito non sapere che per i miei sono solo un fallimento, che per gli altri sono solo un ragazzino, che per i miei amici sono solo uno del gruppo, che per le ragazze sono solo uno fregno. Avrei preferito non sapere quanto male fa sentirsi dei perfetti coglioni davanti a quel quattro al compito e fare finta che non me ne frega un accidente. Avrei preferito non provare il terrore di rimanere solo, intrappolato e in un vicolo cieco, nessuno a difendermi, tra i miei dubbi e le mie insicurezze, così, solo, solo e al buio, senza possibilità, essendo troppo fortunato per poter dire di essere stato sfortunato e poter dare tutta la colpa dei miei fallimenti al mio stato sociale, ma, nello stesso tempo, sentendomi troppo perso in quel mare di amicizie false, di baci dati senza motivo, di parole dette senza anima. 

Ieri ero lì, che la guardavo, lei, la mia ex ragazza, ex di due giorni, s’intende, ex senza un motivo preciso, senza una ragione abbastanza convincente, solo cosi, ex. Rideva con le amiche e io la guardavo, impalato. Non credere che io stia per dire una di quelle cazzate da film: “Ti accorgi di amarla, solo quando la lasci andare” e roba simile; no, niente del genere. Non la amo, quella. In realtà, me la sono fatta talmente tante volte che neanche mi intriga più fisicamente, tanto di lei ho visto tutto, la conosco a memoria, come casa mia, difetti e imperfezioni, con i soliti mobili  di famiglia e i quadri dall’aria tetra. Non so neanche perché la guardavo, ora che ci penso. Forse mi aspettavo qualcosa di più? Forse mi aspettavo che stesse male per me, che piangesse o che smettesse di ridere in quel modo un po’ da modella con quelle cesse leccapiedi delle sue amiche o che la piantasse di fare la scema con ogni maschio in giro per la scuola… Forse volevo solo, per una volta, lasciare un segno. Forse volevo solo che, per un attimo, per un momento, qualcuno si ricordasse che io non sono solo un fallimento, un ragazzino, uno del gruppo o un fregno. Volevo che qualcuno vedesse me. Volevo che qualcuno amasse me. 
Forse mi aspettavo che lei fosse diversa. Me lo aspetto sempre, ci spero, anche se ho imparato che la speranza serve solo a creare ancora più emozioni da nascondere. E io di cose da nascondere ne ho fin troppe, ho tutto me stesso da proteggere dagli sguardi degli altri, che riflettono nei loro occhi di giudici la verità: sono solo me. 
Lei si girava di tanto in tanto, non per qualche motivo preciso, ma perché c’eravamo appena lasciati e doveva approfittarne per conquistarsi un po’ di popolarità, guardandomi male, lamentandosi con le sue BFF di quanto fossi stronzo e dicendo a gran voce, in modo che tutti potessero sentirla, ovviamente: “Ma come si permette di guardarmi, quello stronzo!?”. Sì, come se poi le desse fastidio che io  la guardassi. I miei amici, quelli soliti, ridevano per solidarietà, scuotendo un po’ la testa e agitando il loro ciuffo al sole del cortile, dandomi di tanto in tanto qualche pacca sulla spalla ed esclamando “Bona è bona, eh, però che carattere de merda!”. Io avevo cominciato a ridere insieme a loro, non mi era proprio passato per la testa di sembrare il coglione di turno che un po’ ci aveva creduto o,peggio, di darle la soddisfazione di farsi dire dalle amiche che secondo loro un po’ mi mancava. Non che non lo faranno, sia chiaro, ma almeno così tutti le prenderanno come cavolate dette da delle sfigate invidiose e nessuno mi romperà le palle. 

Quanto le invidio quelle sfigate. Giudicano senza sentirsi giudicate. O forse li sentono i giudizi degli altri, chi lo sa, ma non se ne fregano, perché la loro natura di sfigate non gli impone di pensare, di sentire, di vivere. Loro sfiorano la vita con le loro piccole mani dalle unghie smaltate, camminano sul bordo del baratro con le loro scarpette firmate, senza mai caderci dentro, restandone sempre fuori, cogliendo quell’attimo di popolarità ora con un pettegolezzo, ora con una storia finita male, ora con una scopata, accontentandosi di ogni singolo momento della loro non-vita. 
Io, invece, nel baratro ci sono nato, non caduto, e ora ci vivo dentro, anche se non mi ci sono ancora abituato, perché impossibile: non è come casa mia o la mia ex ragazza, sempre uguali, immutabili, arredate sempre nello stesso modo, no, il baratro cambia di continuo e, anche se i cambiamenti dipendono da me, io non riesco a starci dietro, non riesco a rimanere fermo in questo turbinio di voci, parole, sentimenti, emozioni, vite. 

Vado. La mia ricerca di riprovare l’Emozione non è ancora terminata e stasera esco con quegli amici, per sbavare su qualche altra ragazza, mentre balla, reprimendo la solita speranza di ritrovare quella giusta, quel punto fermo capace di mostrarmi la chiave per capire la Vita, capace di insegnarmi come si fa a guardare un giudice negli occhi e a gridare il mio nome, capace di darmi ciò di cui ho più bisogno, ciò che cerco da sempre: la speranza di poter sperare.

H.C.

domenica 22 gennaio 2017

Caro diario

22 gennaio 2017
Caro diario, 
ogni giorno che passa la voglia di osservare cresce in me come mai prima d’ora. Adesso non guardo più il mondo con occhi pieni di meraviglia, come quando ero piccolino e vedevo il buono dappertutto; no, adesso vedo anche il male che c’è fuori di me e dentro di me; e questo mi spaventa.

Ad esempio, se tu fossi stato quel “tu di sette anni fa”, il mio primo diario in assoluto, regalatomi dalla maestra dopo un meraviglioso dieci al tema sui delfini, avresti contenuto solo storielle su quanto fosse meravigliosa e divertente la vita e  su quanto i miei amici ed io ci sentissimo grandi, quando, spinti da quel brutto ceffo nel film Hollywoodiano che avevamo visto di nascosto dai nostri genitori, avevamo giocato a spararci a vicenda. 

Ma adesso no. Adesso i miei racconti sono tristi e fanno piangere anche me, quando li scrivo (non ti azzardare ad aprirti in faccia a nessuno, bada bene, perché rovinerebbe del tutto la mia reputazione). Adesso scrivo di una generazione che di sogni infranti ne ha molti e di voglia di vivere ne ha ancora meno di quanto ci si aspetta. Adesso quei dannati racconti parlano di quanto spaventoso sia il mondo per noi, per me, e di come abbiamo imparato a farci forza da soli, gli uni con gli altri, dimenticando talvolta anche di avere un cervello indipendente da quello del nostro Gruppo, fonte di salvezza e dannazione per le nostre sempre più fievoli luci della coscienza. 

Qualche settimana fa, mentre guardavo la pioggia fuori dalla finestra in una piovosa giornata d’inverno, mentre i miei amici erano impegnati altrove ed io ero bloccato lì, solo come un cane a deprimermi, ho ricordato di aver avuto un’emozione, una sola volta, un po’ di tempo fa. Non ricordavo benissimo la sensazione, ma credo che implicasse un notevole nodo allo stomaco e un senso di nausea ogni volta che vedevo la ragazza per cui il mio cuore aveva, senza alcun motivo, deciso di produrre ciò che io combattevo da una vita: le emozioni. Sono stato in cerca di qualcuno per cui provare di nuovo quell’emozione sin da allora. E più cerco, più mi convinco che quello problematico non sono solo io: anche le ragazze sono tutte uguali. 

Sabato, ad esempio, sono stato ad un diciottesimo: niente di insolito, devo dire, anche perché alla fine eravamo tutti talmente ubriachi che nessuno si ricordava più dove aveva parcheggiato la fottuta macchinetta. Siamo rimasti là, come sette idioti,  a farci una canna, l’ultima rimasta dal pomeriggio, e a guardare sotto le minigonne delle ragazze che passavano, aspettando che la sbronza passasse un po’.  

Prima di bere per disperazione, tuttavia, ho osservato un po’ gli altri alla festa, prima che arrivassero i miei amici storici e, tra le loro battute e apprezzamenti, perdessi del tutto i freni e mi dessi alla pazza gioia. Erano tutti accatastati a ridosso della parete, formando piccoli gruppi: le ragazze sedute con i piedi doloranti a causa dei tacchi altissimi, che portavano per sembrare meno tozze e nane, e i ragazzi in piedi a cazzeggiare e a indicare l’unica tipa decente nell’intera sala, che però ovviamente faceva finta di non filarseli e continuava a ridere e scherzare con le amiche con quell’aria da troia esperta che a noi ragazzi piace tanto.

Ed io? Beh, io ero tra i ragazzi, ovviamente, guardando di qua e di là come un artista a caccia del soggetto per il prossimo dipinto, osservando, prima, i movimenti sinuosi della tipa sulla pista da ballo; poi, la risata sguaiata di una roscia seduta a pochi metri da me con una profonda scollatura, che, mentre rideva, le metteva ancora più in evidenza le tette; infine, lo sguardo acido che le cretinette giù in fondo scoccavano prima alla tipa e poi alla roscia, mentre seguivano gli sguardi arrapati dei ragazzi, criticando tutto il criticabile senza sosta. 

No! Nessuna di loro suscitava in me la benché minima emozione: la tipa era figa, per carità, niente da ridire su culo e tette, ma sarebbe stata l’ennesima di una serie di storie con ragazze solo da guardare, paccare, scopare… No grazie, ne ho fin troppe e non ne vale la pena per una che alla fine piace a tutti e che mi mollerebbe appena ne trova uno più figo e popolare di me. La roscia era carina, ma quel suo modo di ridere mi suggeriva che, in fondo in fondo, stava imitando la tipa e che, quindi, a questo punto tanto valeva farsi l’originale. Sulle cretinette in fondo non avevo nulla da aggiungere: probabilmente erano più piccole, di secondo o giù di lì, ed io, a diciassette anni, non trovavo neanche un motivo valido per filarmele. Sono delle sfigate: non riuscivano ad imitare né l’una né l’altra tipa e quindi criticavano entrambe. Che merda! 

Poi, stanco di osservare, sono andato al bar e ho iniziato a bere. Nel frattempo, sono arrivati anche i miei amici, quelli storici che tu conosci bene, e con loro… Beh, diciamo che ero troppo fatto per ricordarmelo e la fame chimica iniziava a farsi sentire. Della serata non ricordo più niente a parte quell’enorme senso di delusione, provato quando per l’ennesima volta non sono riuscito a sentire l’Emozione. 

Ora devo andare. Sai com’è, mi aspetta la mia ragazza: sola, a casa, finalmente con i genitori fuori Roma. Non mi posso lasciar scappare questa occasione. Meno male che c’è lei, che mi salva la vita ogni volta che penso troppo. 

H.C.

lunedì 28 novembre 2016

Caro diario

28 novembre 2016
Caro diario, 
innanzitutto ben arrivato. Sei l’erede di migliaia di meravigliosi soldati che hanno dato la propria vita, o meglio, le proprie pagine, per conservare tutte le avventure, che anche tu presto ascolterai. Non so quanti anni hai, sulla copertina è impresso l’anno 2016/2017, ma non sono sicuro che tu sia realmente così giovane: se tu lo fossi, beh, significherebbe che non potresti capirmi fino in fondo. Di me non ti serve sapere nulla: caratteristiche fisiche e aspetto non hanno importanza, mentre per quanto riguarda il resto… non temere, avrai tempo per conoscermi. Per ora, ti basti sapere che ho sedici anni. Eh già, sono uno dei più sfortunati esponenti della tanto rimpianta cosiddetta “adolescenza”, altrimenti conosciuta come “rottura di scatole galattica, alla quale prima o poi siamo tutti costretti a partecipare”.
La mia è l’età dell’insicurezza, della gioia infinita, dei pianti colossali, delle dormite in classe, delle interrogazioni scampate, delle nottate passate in piedi a studiare e dei pomeriggi passati a guardare la pioggia fuori dalla finestra perché “il mondo fa schifo e io ci sto dentro”. Tu, forse, non capisci, perché, a meno che tu non sia un adulto sensibile, cosa difficile da trovare oggi giorno, devo ammetterlo, o un bambino prodigio, le probabilità che tu abbia la mia età sono assai scarse, una su trecentocinquantaseimilioniquattrocentoventisettemila per la precisione. Ma se tu, per un caso o un miracolo, avessi proprio la mia stessa età e fossi nato proprio tra il 1997 e il 2003, mi capiresti sicuramente. Eh già, perché noi adolescenti, seppur per motivi diversi, passiamo tutti la vita a soffrire per qualcosa. Il nostro è un mondo di oppressi, che talvolta si fingono oppressori, per imitare il modo in cui si comportano con loro i cosiddetti “adulti di riferimento”, alias “quei rompiscatole di mia madre e di mio padre”. Leggendo ciò potresti pensare che io sia tale e quale a loro, i genitori, che, invece di darsi la colpa per quello che ci hanno fatto, la danno ad altri: quasi sempre a noi; talvolta ai professori, che poi la danno a noi e fine dei giochi; e, per la maggior parte delle volte, a “questa società corrotta da politici corrotti, che vi insegna a stare sempre con quei cosi in mano…”.
 Io però non penso che i “bulli” non abbiano la responsabilità delle proprie azioni: come ho scritto prima, soffriamo tutti per qualcosa. I bulli lo sanno. Lo sai perché ci risulta così difficile denunciare un “atto di bullismo”? Non per la paura, con quella siamo abituati convivere fin da quando siamo nati, tra assassinii, minacce, attacchi terroristici e confische dell’iPhone. E neanche perché non vogliamo mostrare la nostra fragilità e cavolate di questo genere che dicono gli psicologi, quando i nostri genitori ci portano da loro dicendo in tono malinconico: “Mio figlio ha dei problemi” mentre noi ci andiamo solo perché ci hanno promesso la giustifica per l’interrogazione di greco. La verità è che ci vergogniamo di condannare qualcuno che, in fin dei conti, sta duemila volte peggio di noi. Perché noi lo sappiamo perché quel ragazzo, o ragazza, ci sta trattando così: probabilmente quando torna a casa non c’è nessuno ad aspettarlo, a chiedergli se a scuola è andato tutto bene, a cercare di capire se poi quella famosa giustifica di greco era servita a qualcosa. Noi sappiamo che quel ragazzo riceve a malapena un sms malinconico che dice: “Fai i compiti, torno tardi”. Forse, neanche quello; forse, viene lasciato ad un cupo silenzio, pieno di parole non dette, a rimuginare su quel brutto voto che ha preso in latino (perché è matematico che, se hai la giustificazione in greco, poi quella ti interroga in latino) e a cercare un modo per dirlo ai genitori, perché si vergogna, ma, allo stesso tempo, non vede l’ora che loro gli facciano la solita ramanzina, perché, almeno per una volta, significa che si stanno preoccupando di lui.
Ti voglio svelare un ultimo segreto per oggi: lo sai cos’altro sanno gli adolescenti? Sanno che la peggior forma di oppressione è la noncuranza.

Adesso devo andare; mamma è appena tornata e vorrà sapere del maledetto 4 in matematica che ho preso oggi, con tanto di complimenti della professoressa: “Tu”, ha detto, “ la matematica non sai proprio dove sta di casa!”. Io non so neanche dov’è la mia di casa, figurati se so dove abita la matematica!
Comunque scialla, tutto passa, e domani è un altro giorno.

XOXOXOXO,
                                                                                                                                                 
H.C.

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